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Quanto latino nel nostro linguaggio quotidiano!

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Il mondo contemporaneo pulsa ancora dei battiti della lingua di Cicerone. Il valore ed il fascino del Lexicon recentis latinitatis e del diarium latinum. Di Alberto Bordi

Sono oramai lontani i tempi della grande polemica circa l’uso obbligatorio della lingua latina nella scuola media italiana, ma a rilanciare prepotentemente il tema sul valore del latino nella società odierna è la proposta vaticana di ripristinare la messa in latino, in luogo del meno solenne ma più comprensibile italiano. A ben vedere la conflittualità tra chi la ritiene una lingua morta e quanti la indicano come l’insostituibile palestra dell’intelletto, non può dirsi certamente sopita, anzi rischia di riemergere con toni accesi ogniqualvolta un citazionista incallito, come ad esempio il presidente della Lazio calcio, Claudio Lotito, sfoggia la sua conoscenza urbi et orbi. Soprattutto negli ambienti giuridici la forma latina è quasi d’obbligo per cui è frequente ascoltare interlocutori che sostengono le loro tesi contrapposte a colpi di “res iudicata”, di reformatio in pejus”, di “falsus procurator”, di “ne bis in idem” e di un più complicato “nemo locupletari ipotest cum aliena iactura”. Ma l’uso, o meglio l’abuso, di latino, rappresenta talvolta anche un vizio di ostentazione di una certa cultura classica che fa decisamente indispettire chi deve subire, spesso senza capire o poter replicare, scampoli di saggezza di millenaria memoria, condensata in celebri brocardi come “melius abundare quam deficere”, “in medio stat virus”, “festina lente”, “repetita iuvant”, “verba volant scripta manent”, et cetera et cetera.

Una situazione, insomma, che ci riporta al povero Renzo dei Promessi Sposi, che, esasperato, dall’atteggiamento sfuggente di Don Abbondio, condito da una sequela di impedimenti al matrimonio, tutti esternati rigorosamente in latino (error, conditio, votum , cognatio, crimen…), lo interrompe esclamando “che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”, un genitivo plurale sintatticamente di certo fuor di luogo ma significativo al punto giusto per sottolineare il carattere ostico di tale linguaggio.

Eppure, volenti o nolenti, il mondo che ci circonda, detto inter nos, così incline alla ipermodernità ed alla cibernetica, pulsa ancora con i battiti della latinità. “Par condicio”, “alibi”, “sponsor”, “referendum”, “agenda”, “medium”, “virus”,”album”, “bonus-malus”, “ambo”, “audio-video”, “bis”, “deficit”, “una tantum”, “duplex”, “habitat”, “humus”, “gratis”, “solarium”, “lavabo”, “rebus”, “proloco”, “monitor”, “idem”, “libido”,”curriculum”, tanto per citare solo alcuni termini frequenti nel nostro lessico quotidiano e senza tirare in ballo i tantissimi termini usati in medicina, come “ictus”, “herpes”, “delirium tremens”, “claudicatio”, per indicare il variegato panorama delle patologie. E’ decisamente innegabile che dietro ogni parola latina sembra ci sia sempre un aneddoto, un grande personaggio, un aneddoto, un messaggio etico, un principio giuridico, un evento della storia, un qualche mistero, qualcosa comunque di importante, che dall’antica civiltà romana riverbera il suo fascino verso di noi, uomini del terzo millennio, e che ci emoziona e ci attira come una qualsiasi scritta o incisione che leggiamo su una pietra o su un monumento. Ed è tutto questo che rende magicamente interessante anche una semplicissima curiosità come quella che accomuna le città di Orvieto e Viterbo, derivate etimologicamente dalle medesime parole latine “urbs” e “vetus” (città e antica) anche se invertite, oppure che giustifica la pessima fama attribuita ancora oggi al numero 17, che i romani scrivevano XVII, ma che anagrammavano con un nefasto VIXI, ossia sono vissuto e quindi deceduto. Qualcuno tuttavia non si accontenta di queste significative ma sporadiche presenze di latino nello scrivere e nel conversare moderno ed ha realizzato una pubblicazione per certi aspetti straordinaria, in quanto capace di attraversare il tempo. Parliamo del “Lexicon recentis latinitatis” contenente oltre ventimila nuovi lemmi in grado di indicare, nella lingua di Cicerone, oggetti e concetti del nostro quotidiano. Così l’astronave è detta “navis sideralis”, la bomba atomica è il “pyrobolus atomicus”, la sigaretta è il “nicotianum bacillum” mentre lo shampoo è la “spumifera lotio”, il casinò è la taverna aleatoria, e così via. Ma non è tutto: mentre alcuni studenti hanno portato sulle scene teatrali Pinocchio nella versione latina di “Pinocolus”, altri hanno tradotto le storie di Paperino “Donaldus anas” e di Topolino “Michael Musculus”. Pochi sanno inoltre che la fondazione Latinitas pubblica il “diarium latinum” ove si redige, nella lingua di Livio e di Tacito, la cronaca degli avvenimenti di maggior rilevanza mondiale. Insomma il latino è ancora presente intorno a noi, presenta un indubbio fascino, ma va usato “cum grano salis”, nelle giuste occasioni e senza eccessi. “Est modus in rebus” diceva Orazio, anche qui ci vuole la giusta misura; quindi usarlo una tantum è piacevole, ma esagerare può risultare fastidioso. In ogni caso, per chi non lo ha studiato, che questo non costituisca un cruccio, d’altra parte c’è sempre l’inglese come nuova lingua universale ed un “no problems” vale sempre un “nulla quaestio”. Ad maiora.

 

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