Antigone e Creonte, phusis e nomos, giustizia divina e giustizia terrena, un eterno confronto mirabilmente proposto all'umanità dalla tragedia di Sofocle di Valeria Bordi

Lunedì 25 Marzo 2013 18:32
Stampa

 

 

Troppo spesso le sentenze di un giudice, di un tribunale, di una “corte”, lasciano l’amaro in bocca ed inducono i cittadini a pensare che il nostro sistema giudiziario non funzioni, che la giustizia

 non sia un valore alla portata della civiltà del terzo millennio. Sistematico e consequenziale il rifugio ad una speranza di giustizia divina, rigorosa, puntuale ed inesorabile.

Il tema ha origini lontanissime, nasce insieme all’uomo, al desiderio di giustizia, all’opzione tra giudice divino e giudice terreno ed ha il suo primo, insuperabile, interprete in Sofocle, che nella sua tragedia Antigone mette spietatamente a confronto phusis e nomos, legge divina e norma terrena.

L’antefatto della vicenda consiste in guerre senza fine che si concludono con la salita al trono, nella città di Tebe, di Creonte. Il nuovo monarca dispone che il corpo del suo avversario Polinice non abbia l’onore della sepoltura ma venga lasciato in balia dei cani randagi.

La pena prevista per chiunque tenti di seppellirne il corpo contravvenendo al divieto, è la morte. Antigone, sorella di Polinice, non può sopportare questo scempio, questa crudele ingiustizia e procede alla sepoltura del fratello, lasciandosi poi arrestare senza opporre alcuna resistenza. Condotta al cospetto di Creonte, la giovane donna afferma orgogliosamente e con estrema convinzione di voler obbedire non alle leggi scritte, ma solo alle leggi degli dèi, alle norme non scritte e indistruttibili dettate dalla natura e dalla propria coscienza. Alla decisione di Creonte di imprigionare la donna fa immediato riscontro la supplica di Emone, figlio del re, affinché abbia pietà della giovane, sua promessa sposa.

Neppure il pianto del figlio induce Creonte a tornare sui suoi passi, ma la situazione muta radicalmente quando l'indovino cieco Tiresia lo avverte che gli dèi sono molto adirati per aver egli rifiutato la sepoltura a Polinice e profetizza la morte del figlio del re come castigo divino. Il re non crede all’indovino ma acconsente ugualmente alla sepoltura di Polinice quando i Tebani gli ricordano che Tiresia non ha mai sbagliato una profezia.

Creonte lava il corpo di Polinice, effettua i riti di sepoltura e si reca verso la caverna ove è prigioniera Antigone con l’intento di liberarla, ma trova innanzi a se uno spettacolo tragico: Antigone si è impiccata ad una corda ed Emone sta ai suoi piedi in lacrime ed alla vista del padre, si trafigge morendo abbracciando per l’ultima volta il corpo della amata. Completamente distrutto, Creonte, ritorna al palazzo ove apprende che anche la moglie Euridice s'è tolta la vita alla notizia della morte del figlio. Il re di Tebe è trascinato via dai suoi cittadini, che in coro, deplorano le sue azioni, auspicando che solo la morte possa liberarlo da una così grande sofferenza terrena.

Il dramma sofocleo pone a confronto, da una parte, la ferma fiducia di Antigone nelle leggi della natura dettate dalle divinità e, dall’altra, la forte convinzione di Creonte nelle leggi poste dagli uomini. Phusis e nomos si contendono un primato che sancirebbe la superiorità delle leggi divine su quelle della polis o viceversa. Il dibattito ha solo duemila anni di storia…….. troppo pochi forse per una sentenza definitiva, ma è dovere di ogni collettività dotarsi degli uomini, degli strumenti, delle leggi e delle procedure che possano garantire nel miglior modo possibile alla collettività il bene fondamentale della giustizia, per quanto questa risulterà fisiologicamente imperfetta perché terrena  e gestita dagli uomini. Ad applicare la giustizia divina, inesorabile, infallibile e senza appelli, non possono certo provvedere giudici togati ed investiti dagli uomini, per quanto preparati ed incorruttibili; sono necessari magistrati di ben altro rango e spessore che guardino con altro approccio agli interessi terreni ed al contenzioso ad essi correlato....