"Più stranieri più criminalità: un’equazione che non torna" di Alberto Bordi viceprefetto - dirigente Servizio I D.C. Politiche Immigrazione e Asilo Ministero Interno

Giovedì 13 Aprile 2017 17:35
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(In Rivista Libertà Civili Novembre-Dicembre 2010)

I dati del VII Rapporto del Cnel ridimensionano la valenza di una proporzione che, anche a causa del tam tam mediatico, è spesso alla ribalta nel dibattito politico e giornalistico Spesso è sufficiente un episodio di criminalità di una certa rilevanza con protagonista un immigrato

 

ed ecco che l’equazione “più immigrati, più criminalità” torna  prepotentemente  alla  ribalta  nel  nostro  Paese,  spesso  a dispetto della logica e dei numeri che, restando all’equazione di partenza, su un tema così complesso dal punto di vista sociale, contano più delle reazioni emotive. Nella realtà cittadina romana una reazione di tal genere si è registrata  in  occasione  della  barbara  uccisione  della  signora Reggiani in una terribile serata di tre anni fa; nella circostanza a  scatenare  un  atteggiamento  xenofobo  nei  confronti  della comunità dei romeni nella Capitale è stata l’efferatezza dell’atto criminale  posto  in  essere,  reso  ancora  più  inquietante  dal connotato  quasi  primordiale  dell’autore  del  gesto  omicida.

 

Questo tipo di risposta non è peraltro nuovo e ha accompagnato in altri tempi e in altri ambiti i rapporti tra comunità autoctone e collettività  di  immigrati;  senza  andare  lontano  basterebbe ricordare la presenza dei nostri meridionali nel Nord Italia negli anni Sessanta-Settanta, allorché gli episodi di criminalità urbana venivano stigmatizzati e accomunati come frutto di una sorta di gene criminale insito nella gente siciliana o calabrese spostatasi a Torino o a Milano in cerca di lavoro.

Ovviamente la fisiologica reazione a crimini particolarmente gravi non può essere né impedita né sottovalutata, anche perché la  massima  attenzione  va  riservata  da  parte  delle  autorità competenti e dell’intera opinione pubblica agli episodi malavitosi perpetrati nel medesimo ambito locale o sociale, oppure riconducibili a una determinata etnia presente in uno specifico territorio.

Quello che preoccupa non è la reazione emotiva e psicologica di larga parte dell’opinione pubblica a crimini efferati, che è legittima e naturale, ma la semplicistica estensione delle connotazioni  criminogene  di  un  individuo  o  di  un  gruppo  di  soggetti autori del reato a una intera progenie, con un atteggiamento di tipo manicheo che spesso rapporta apoditticamente il bene e il male allo status di italiano o di “straniero”, in mancanza di dati e di riscontri oggettivi su larga scala.

A  supportare  il  processo  di  etichettamento  che  sottende l’equazione “più immigrati più criminalità” concorre la convinzione che la povertà, il bisogno, la disperazione, per di più trapiantati in  un  ambito  lontano  dalle  proprie  radici,  generino  inevitabilmente comportamenti  criminosi;  tuttavia,  tale  proiezione  comportamentale non può avere valore assoluto, in quanto è verosimile che tutti i migranti che lasciano le proprie terre, i propri affetti, e i loro (pochi) averi per approdare a una soglia di vita migliore, perseguano  prioritariamente  l’obiettivo  di  ottenere  un  lavoro piuttosto che una predefinita strategia criminogena. Questa, più realisticamente, è ipotizzabile come estrema e residuale, e forse realizzabile  più  semplicemente  nel  proprio  territorio  d’origine.

In secondo luogo, la matrice della disperazione dello straniero, mutatis  mutandis ,  non  può  dirsi  lontana,  nei  concreti  comportamenti,  dal  comportamento  delittuoso  estremo  del  cittadino italiano  che  si  trovi  senza  lavoro,  senza  prospettive  e  senza aiuti esterni di sorta.

Questo rapido passaggio mostra come muoversi nel campo delle motivazioni, delle valutazioni generalizzate, delle reazioni emotive  riferite  a  episodi,  anche  se  gravi,  non  possa  rappresentare la giusta chiave di lettura di un’equazione complessa e instabile  che  mette  insieme  due  macrocosmi  diversi  e  variegati come il mondo dell’immigrazione e il pianeta della criminalità. Molto più corretta e affidabile, in tale contesto, l’opzione della fenomenologia  reale  fondata  su  dati  attendibili,  su  riscontri tangibili e analizzabili, come quelli di recente elaborati e riportati nel  VII  Rapporto  del  Consiglio  nazionale  dell’economia  e  del lavoro - Cnel (si veda anche libertàcivili n.5/2010) che dedica una sezione proprio a tale problematica, facendo riferimento a una componente oggettiva quale il numero delle denunce penali riferite agli stranieri in Italia. Questo parametro non si presta a voli pindarici e rimane agganciato a un indicatore tangibile e quantificabile come la denuncia, pur prendendo atto che i cittadini stranieri hanno maggiori possibilità di essere denunciati per il fatto di essere più individuabili, meno dotati di mezzi di difesa.

Una lettura prima facie del Rapporto conduce a tre valutazioni, per taluni profili, inaspettate: la prima evidenzia che, nel periodo 2001-2008 l’aumento delle denunce a carico degli immigrati è risultato inferiore rispetto all’aumento del numero degli immigrati; la  seconda  è  che  tale  aumento  di  denunce  è  molto  più  basso se  si  tiene  conto  che  l’addebito  dei  reati  riguarda  anche  gli immigrati  irregolari  e  altre  categorie  di  stranieri  non  residenti. La  terza  si  riferisce  agli  immigrati  arrivati  ex  novo nel  periodo 2005-2008, i quali risultano imputati di addebiti penali in misura inferiore rispetto alla popolazione, italiani e stranieri, già stabilita in Italia.

La prima conseguenza deducibile dai dati considerati è che il  senso  di  peggioramento  della  sicurezza  debba  essere ricondotto ad altri fattori più che all’incremento della popolazione straniera. La ricerca del Cnel, che si è fatta carico di un’analisi mirata  su alcune  specifiche  collettività,  da  tempo  “nell’occhio del  ciclone”  della  realtà  italiana,  come  quella  marocchina  e quella rumena, mette in luce come quest’ultima stia conoscendo un  andamento  più  virtuoso  di  quanto  veicolato  dal  dibattito pubblico e dagli organi di stampa. Potrebbe essere in atto un processo non dissimile da quello che ha riguardato la comunità polacca trasmigrata in Italia nel decennio passato, additata per lungo  tempo  come  composta  da  ubriachi,  rissosi,  “lavavetri” nella  migliore  delle  ipotesi,  e  ora  considerata  una  comunità “virtuosa” con vocazione alla piena integrazione.

Acquisiti  questi  dati,  certamente  più  rassicuranti  rispetto  a un  immaginario  con  contorni  inquietanti,  definito  da  qualche studioso come “il crime deal italiano”, c’è da chiedersi come si ponga il nostro Paese rispetto agli altri Stati membri dell’Unione Europea  alla  luce  della  equazione  sociologica  di  partenza.

Ebbene  anche  sul  fronte  del benchmarking non  mancano  le sorprese: se  si  prendono in  esame  i  dati  forniti  da  Eurostat  nel periodo  1995-2006  con  particolare  riguardo  all’anno  2006,  le denunce  aventi  per  destinatari  stranieri  sul  nostro  territorio  si attestano sul 4,6 % rispetto alla popolazione residente, pari a 1 ogni 22 residenti, (contro il rapporto 1 a 16 che costituisce la media europea),  dato  che  ci  colloca  in  una  posizione  intermedia  nel panorama continentale “unito”. Al primo posto di questa particolare classifica  del  rapporto denunce/residenti  si  posiziona,  anche  qui con una certa sorpresa, la Svezia (13,3%), davanti a Regno Unito (9, 8%) e Belgio (9, 5%), dati  che  devono  necessariamente tener  conto  dei  diversi  ordinamenti  penali  di  riferimento  e  delle

diverse  culture  esistenti  presso  quelle  popolazioni  sull’utilizzo dello strumento della denuncia

Sempre  dai  dati  Eurostat  elaborati  dal  Dossier  statistico Caritas/Migrantes e assunti nella ricerca del Cnel emerge come Roma,  in  quanto  a  tasso  di  omicidi,  con  1,28  casi  su  100mila abitanti, risulti tra le cinque capitali europee più sicure. Il dato da tenere in maggior considerazione si riferisce comunque al primo quinquennio  degli  anni  2000,  un  periodo  che  segna  un incremento  delle  denunce  proporzionalmente  minore  rispetto all’aumento degli stranieri, a definitivo suggello delle tesi anticatastrofiste sulle presenze straniere criminogene in Italia.

Se questo è il tratto evidente sull’equazione di partenza, non si  possono  tralasciare  alcune  considerazioni  che  precisano ulteriormente il dato considerato: in primis che esso non tiene conto  della  riconducibilità  di  più  reati  allo  stesso  soggetto denunciato, al fatto che siamo di fronte all’elemento “denuncia” e non all’esito “condanna”, e che nel novero degli stranieri in Italia non sono ricompresi i tanti stranieri “in sofferenza anagrafica”, ossia in attesa di essere registrati come residenti, fattori questi che  dilatano  ulteriormente  il  rapporto  direttamente  proporzionale tra stranieri immigrati e criminalità derivata.

Un terzo livello di analisi riguarda poi il tipo di “criminalità” considerata nella casistica qui richiamata, nella quale gran parte delle denunce ricade nell’area dei reati comuni o soft crimes , tra i quali lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione, lo strozzinaggio, gli atti molesti, i furti, gli scippi e le aggressioni, pur non mancando atti di maggior gravità. Altro fattore dal quale è fondamentale non prescindere riguarda la  mole  di  denunce  relative  alla  violazione  della  legislazione sugli stranieri (stato di irregolarità, fuga, false generalità, documenti alterati,  resistenza  all’arresto,  oltraggio  a  pubblico  ufficiale, occupazione  di  locali  adibiti  a  luoghi  per  dormire  etc.)  che  in taluni anni si attesta su un sesto del numero complessivo.

I dati statistici, come noto, sono fondamentali per conoscere il passato di un fenomeno, la tendenza nel presente dello stesso e le proiezioni future a breve o medio termine. Le risultanze sin qui  analizzate  alla  luce  dell’equazione  “più  immigrazione,  più criminalità”  ci  hanno  condotto  a  un  percorso  diacronico  che deve necessariamente fornire elementi riguardanti le prospettive per il nostro vivere quotidiano, le quali, in costanza del quadro planetario di riferimento, non possono fare a meno di considerare il fattore generazionale e quello dell’età degli stranieri giunti nel territorio italiano.

Più immigrati, più criminalità: un’equazione che non torna Innanzitutto  è  evidente  che  i  reati  denunciati  in  Italia  sono attualmente  ascrivibili  in  gran  parte  alle  prime  generazioni  di immigrati, composte prevalentemente da uomini e donne di età compresa tra i 30 e i 40 anni e, quindi, più giovani degli italiani e statisticamente  più  propensi  alla  devianza.  In  presenza  di una  popolazione  ospitante  più  “giovane”,  come  non  risulta essere  quella  italiana,  l’incidenza  criminogena  degli  ospitati sarebbe ancora minore. Dai 40 anni in poi, accanto alla naturale maturazione  degli  individui,  essendo  già  avviati  i  processi  di inserimento ed essendo più marcato il desiderio di integrazione e  di portare a successo il progetto di vita faticosamente messo in cantiere, il tasso di delinquenza è inevitabilmente destinato a scendere, ponendo le basi per una progressiva integrazione nel nostro tessuto socio-economico, in modo non dissimile da quanto  avvenuto  per  gli  italiani  giunti  in  America  nel  periodo postbellico, prima respinti e oltraggiati, poi integrati e apprezzati.

C’è infine una sorta di fattore remoto nel “binomio immigrazione-criminalità” di cui ci stiamo occupando, apparentemente poco rilevante, ma che in realtà incide fortemente sull’approccio ideologico al tema, sul quale incombe un pericoloso pregiudizio di  base  impostato  sul  manicheismo  bene-male,  italiani-stranieri o, ancor su più ampia scala, “noi-gli altri”. Si allude al fatto che una buona parte degli atti criminosi sono posti in essere dagli immigrati a carico degli stranieri stessi, spesso a danno della medesima  componente  etnica  e  che  da  questi  proviene  una buona parte delle denunce, formulate con fatica, con coraggio e con rischio di ritorsione. Lo straniero vittima di un crimine che denuncia per difendere la propria esistenza, il proprio progetto di  vita  e  il  proprio  lavoro  o  i  propri  risparmi  si  va  a  collocare, forse inconsciamente, a fianco dei cittadini italiani che osteggiano il  crimine,  la  sopraffazione  e  il  non  rispetto  dei  valori  umani fondamentali.

Ecco  quindi  profilarsi  una  nuova  e  più  corretta  posizione manichea, frutto inevitabile dei tempi che viviamo, in cui gli elementi a confronto non sono più italiano versus straniero, ma onesto contro disonesto, rispettoso del prossimo e delle leggi contro criminale, indipendentemente dalle differenze di lingua, nazionalità  e  religione,  come  recita  il  nostro  articolo  3  della Costituzione  e,  in  modo  ancor  più  esteso  e  rigoroso,  la Dichiarazione  universale  dei  diritti  dell’uomo  del  1948  che all’articolo 1 afferma: “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

 

L'articolo integrato dai dati statistici di riferimento. Pagina 115 Libertà Civili Nov.Dic. 2010