"Massime ridotte al minimo". Utili richiami a sentenze in tema di lavoro. A cura di Alberto Bordi

Martedì 21 Febbraio 2012 10:38
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Corte Suprema di CassazioneInsulti in ufficio, assenze oltre il periodo di comporto, demansionamento professionale

Cassazione: Rischia una condanna per ingiuria chi insulta un lavoratore sul luogo di lavoro e davanti ai suoi colleghi

Articolo 594 del Codice Penale: "Ingiuria. Chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a .......Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa. La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a ......, se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato. Le pene sono aumentate qualora l’offesa sia commessa in presenza di più persone". E' meglio tenerla a mente questa disposizione; infatti rischia una condanna per ingiuria chi insulta un lavoratore sul luogo di lavoro e davanti ai suoi colleghi. E non ci vuole molto, è sufficiente una espressione del tipo "lei dice solo stronzate" per una tale imputazione. Sul punto è significativa la sentenza n. 37380 del 17 ottobre 2011 con cui la Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza emessa dal Giudice d'Appello che assolveva un Preside di un Istituto scolastico, per insussistenza del fatto, dall'imputazione del reato in parola. Nel caso di specie - si legge in motivazione - la collocazione dell'episodio in una riunione di colleghi, quotidianamente impegnati in un'attività professionale comune assume sicura rilevanza nel definire l'incidenza lesiva della condotta. Va ricordato come, secondo la Corte Suprema, aliunde, non sia reato molestare tramite e-mail un collega di lavoro, in quanto la legge non prevede espressamente il fatto come reato.

 

Se la malattia è conseguenza di mobbing, non perde il posto chi si assenta oltre il periodo di comporto
Dalla Corte d'Appello di Firenze arriva la sentenza 155 del 9 febbraio 2010 in tema di mobbing correlato al periodo di comporto. Per tale si intende il periodo di tempo durante il quale il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, nonostante l'esecuzione della prestazione venga sospesa per fatto inerente alla sua persona. Nei casi espressamente previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva, il contratto dunque non si risolve e si ha semplicemente una sospensione del rapporto di lavoro: rilevanti, a tal fine, sono le ipotesi della malattia, dell'infortunio, della gravidanza, del puerperio, del richiamo alle armi o della chiamata per obblighi di leva. I giudici fiorentini hanno affermato che sia illegittimo il licenziamento per il superamento del periodo di comporto se la malattia, in questo caso, ansia e attacchi di panico, è derivata da mobbing.

Mandare a quel paese il capo? Sembra lo possa fare solo l'impiegato modello. Illegittimo il licenziamento, parola di Cassazione
Essere un impiegato modello ha i suoi risvolti positivi. Non è da poco il fatto che chi ha questa prerogativa può mettersi il lusso di mandare a quel paese il proprio capo. La licenza, a patto che sia "di carattere episodico" arriva dalla Cassazione che ha respinto il ricorso di una casa di cura di Catanzaro che aveva inflitto il licenziamento disciplinare ad una sua dipendente colpevole di alcune intemperanze tra le quali quella di avere usato espressioni offensive nei confronti di un superiore. Secondo la Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 3042, "un comportamento, per quanto grave, se ha carattere episodico e se è riconducibile ad un dipendente che non è stato mai oggetto di censure comportamentali, non può fare arrivare ad un giudizio di particolare gravità" tale da determinare il licenziamento. In questo modo la Suprema Corte ha confermato la reintegra nel posto di lavoro di una donna che si era vista licenziare dalla casa di cura ove prestava servizio.

Demansionamento professionale e quantificazione del danno, l'avviso della Cassazione: il profilo della "mortificazione professionale"
Con sentenza n. 4063 del 2010 la Corte di Cassazione ha riconosciuto ad un lavoratore dipendente un risarcimento del danno per “ mortificazione professionale” nettamente superiore a quanto precedentemente riconosciuto dalla Corte d’Appello di Firenze. Le difficoltà organizzative dell'azienda/datrice di lavoro eccepite nel caso di specie non hanno convinto gli ermellini di piazza Cavour e non ritenute idonee a giustificare un demansionamento per ben due anni a carico dell'impiegato. Il ricorrente era stato l’unico dipendente, a differenza degli altri colleghi, rimasto privo di specifiche mansioni da svolgere per un periodo ultrabiennale ed il comportamento datoriale è stato censurato in virtù della reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale perpetrate a carico del ricorrente. Il lavoratore, che per anni aveva guidato il proprio ufficio si era trovato a dover operare in un locale angusto, fatiscente e privo di computer. Lo stesso aveva più volte evidenziato l'isolamento ed il disagio patiti, sollecitando l’amministrazione ad ricollocarlo per lo svolgimento di attività che non compromettessero la propria esperienza e la propria qualificazione professionale, prescindendo da possibili aspettative di progressione nella carriera. La Corte nel riconoscere il diritto vantato dal ricorrente, nel cassare con rinvio la sentenza dei giudici di merito, ha inoltre affermato come , una volta accertato il demansionamento professionale del lavorato, spetti al giudice di merito accertare l’esistenza del relativo danno utilizzando i parametri della durata e della gravità dello stesso, connessi alla "mortificazione professionale".

Pillole di decisioni giurisprudenziali