Pagina 30. Rubrica di Eva Bellacicco.Un profilo perduto - Françoise Sagan

Mercoledì 02 Aprile 2014 08:21
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Françoise Quoirez, in arte Sagan in onore dell’omonimo personaggio della Recherche proustiana, di sé diceva: il mio passatempo preferito è lasciare passare il tempo, avere tempo, prender tempo, perder tempo.

 

Un  romanzo la cui  ammirevole facilità di stile si associa ad una non altrimenti definibile grazia selvaggia, specchio di un’ indole ribelle e sensibile, ha ottime probabilità di essere stato scritto in anni roventi  come  quelli che vanno dalla fine del ’68 ai primi del 1970, in un Paese che ha conosciuto movimenti di rivolta giovanile, e non solo, e che a scriverlo sia stata una donna di animo indisciplinato e occhio spietato sulla società in cui si trova a vivere (suo malgrado, lo possiamo dire?).

Si contano sulle dita di una mano  scrittrici con queste caratteristiche e tra queste, ingiustamente  dimenticata troppo frettolosamente, c’è  Françoise Sagan, portavoce della liberazione e delle insofferenze  delle donne che in pochi anni hanno dovuto scegliere da che parte stare.

Françoise Quoirez, questo il vero nome, nasce nel 1935 e muore per embolia polmonare nel 2007. Esordisce nel mondo della letteratura con il romanzo “Bonjour tristesse” nel 1954 ed è subito scandalo, sia per i modi sia  per l’argomento trattato.

Ritroviamo la scrittrice, vent’anni dopo, con “Un profilo perduto” , storia di una coppia in crisi e di  una donna in fuga dai  ruoli tradizionali. Sullo sfondo la noia e la vuotezza dei rapporti umani in una società dalle tante contraddizioni.

Il romanzo non è sicuramente all’altezza di quello d’ esordio , ma è senz’altro l’efficace  testimonianza di una più matura Sagan, ex ragazza scandalo, che scavava sotto i rapporti borghesi e perbenisti, e  che negli anni più bui della sua vita, dove anche la salute e la  reputazione erano state messa a repentaglio,  propone un ritratto, dai forti riferimenti autobiografici, di donna che sta cambiando; ma in cosa consista questo cambiamento e questa smania che la rende sola e inafferrabile non sa dirlo neanche lei. C’è qualcosa, in questo perduto senso del reale e dell’identità personale, che resta indeterminato e sfuggente  anche al lettore e  che rende appassionante e affascinante la protagonista del libro.

Non so se Françiose Sagan abbia mai  letto questa poesia  di   Theophile Gautier intitolata appunto “Un profil perdu”. Ammettiamo di sì, allora si può capire ancor di più il senso del libro e il titolo perfetto.

 

“Qu’elle me plaît, en son costume antique,

Cette beauté, blanche sur un fond noir,

Rêve d’amour qu’un pinceau poétique

Cache à demi, pour mieux la faire voir !

 

On n’aperçoit de toute la figure

Qu’un bras superbe et qu’un profil perdu ;

Mais si charmant, si parfait, qu’on augure

Bien des trésors dans ce sous-entendu !

 

Un lourd chignon baigne la nuque blonde,

Flots d’or où luit un peigne en diamants ;

Vénus ainsi dut, au sortir de l’onde,

Tordre et nouer ses cheveux écumants.

 

À l’art exquis s’ajoute le mystère,

Le Sphinx coquet irrite le désir,

Mais il dit tout en paraissant se taire;

S’il se tournait, nous mourrions de plaisir !”

 

“La spiaggia di Nassau era bianca, bella, il sole caldo, l’acqua trasparente e tiepida. Mi andavo ripetendo tutto questo come recitassi un incantesimo, allungata in un’amaca e cercando di credere a quel che vedevo. Non ci riuscivo. Non provavo alcuna felicità, neppure fisica, nella somma di queste cose meravigliose. Da tre giorni che mi trovavo là, una specie di tarlo insidioso mi lavorava nel cervello ripetendomi:” Che cosa fai qui? Perché? Sei sola” Eppure qualche volta, e proprio da sola, avevo conosciuto certi momenti di felicità stravaganti, quasi metafisici, in cui si scopre improvvisamente, in un lampo rilevatore e concreto, che la vita è una cosa splendida e che è giustificata assolutamente, irrimediabilmente, in quell’istante preciso, per il semplice fatto di esistere. I miei altri momenti di felicità erano stati di felicità condivisa ed erano stati i più numerosi; come se, per scoprire, per captare quella piccolissima molecola di felicità, fosse necessario un microscopio sentimentale formato dalla congiunzione di due sguardi. Il mio sguardo, attualmente, non era sufficientemente forte per ricreare da solo quella luce abbagliante. Julius, che non amava il caldo, parlava d’affari in uno dei sontuosi saloni ad aria condizionata dell’albergo e quando ci trovavamo, al momento dei pasti, con Mademoiselle Barot, non mancava di complimentarsi con me per la mia abbronzatura. Lui era molto pallido, molto affaticato. Buttava giù un’infinità di medicine, pastiglie bianche, rosse, gialle, di cui aveva fatto provvista a New York, e talvolta le chiedeva, con un gesto imperioso della mano, alla povera Mademoiselle Barot che gli gettava un’occhiata preoccupata. Personalmente,avevo una paura maledetta delle medicine, ma evitavo di alludervi per una sorta di pudore piuttosto fuori moda di questi tempi in cui tutti si compiacciono di descrivere con entusiasmo i minimi disturbi fisiologici.Quella  specie di morbosa fame di medicine mi sembrava un po’ comunque preoccupante e finii con l’ 0interrogare in proposito Mademoiselle Barot che mi recitò con aria contrita una lista sbalorditiva di psicotonici, sonniferi e tranquillanti. Mi stupii. Julius, l’invulnerabile e potente uomo d’affari, aveva bisogno di essere tranquillizzato? Il mio protettore era anche lui bisognoso di protezione? Era la fine del mondo. Sapevo tuttavia che i nove decimi della popolazione “alimentata” del globo ricorrevano a questi psicofarmaci. Ed era logico che Julius, sovraccarico di lavoro e di solitudine, ne sentisse il bisogno. Tuttavia, era il primo segno di squilibrio che presentasse e mi spaventò. Eppure ero abbastanza grande per sapere che c’è sempre della sabbia sotto il cemento, o del cemento sotto la sabbia, e che la difficoltà di vivere è universale. Cominciai dunque a pormi degli interrogativi sull’infanzia, la vita, la natura profonda di Julius. Era ora che lo facessi, avrei potuto interessarmi un po’ prima a una persona che mi dimostrava tanta bontà. A parte questo breve momento di rimorso, mi annoiavo a morte in quella Nassau caricaturale, popolata da americane isteriche e uomini d’affari estenuati.

Fortunatamente , grazie alla concorrenza di innumerevoli piscine al riparo da squali e microbi, il mare era deserto. La mia solitudine continua sulla spiaggia, anche se  a momenti mi opprimeva, mi intorpidiva un po’, attenuava l’eco delle grida di Alan nella camera d’ospedale, e aspettavo senza troppa impazienza che il mio corpo si ritrovasse all’unisono col paesaggio che rientrassimo a Parigi. Le serate erano bellissime, i tavoli della cena venivano sistemati vicino al mare, e un pianista invisibile, accompagnato da un bongo, suonava all’ombra i vecchi successi di Cole Porter. Dopo cena, qualche raro cliente dell’albergo veniva ad allungarsi sull’amaca e guardava il mare e la luna dividere i loro riflessi nel rumore ostinato dell’onda. Fu così che una sera in cui Julius aveva espresso l’incredibile desiderio di un valzer di Strauss, scoprii il pianista sulla pedana di legno , vicino all’acqua e formulai la mia richiesta con voce un po’ turbata perché lo trovai  notevolmente bello. “