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Home Arte cultura e tempo libero Bestiario mitologico

Bestiario mitologico

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Di sfingi, grifoni, chimere, arpie, idre, liocorni, basilischi e draghi vari non c’è traccia nella storia, eppure piazze, ville, fontane, stemmi, musei ed altro ancora sono pieni di rappresentazioni di queste strane figure ibride, spesso portatrici di due o più componenti di animali diversi.

 

 

 

Nel  libro “Le città invisibili”, Italo Calvino, quando parla delle città nascoste, sciorina un elenco  di animali mitologici che “riprendevano possesso delle loro città”. Testualmente sono citati “ sfingi, grifi,  chimere, draghi,  ircocervi,  arpie,  idre,  liocorni e  basilischi”, cui noi abbiamo voluto aggiungere la fenice e Medusa.

Il basilisco. Una sorta di draghetto alato dalla lunga coda indicato nei bestiari  come "re dei serpenti" (dal greco basileus =re) che  aveva  il potere di uccidere o pietrificare con un solo sguardo diretto negli occhi. Ne parlano Plinio il Vecchio e Solino, Isidoro di Siviglia, Beda, ( primo ad attestare la leggenda di come il basilisco nascesse  da un uovo deposto da un gallo anziano), Teofilo, Johannes Janssen di Aquisgrana (1748), Alberto Magno, Geoffrey Chaucer nei Racconti di Carterbury. In araldica il basilisco simboleggia potenza ed eternità della stirpe, in base alle credenze egizie che lo dipingevano di vita lunghissima, vista la sua capacità di uccidere gli altri animali con il fiato. E’ presente negli stemmi delle città di Melfi, Peschiera Borromeo, Belluno ed Aversa. Una bella fontana lo ritrae nella città svizzera di Basilea. In un salmo biblico si legge « Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem, ossia “tu camminerai sull'aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il drago. “

L'unicorno è una creatura leggendaria dal corpo di cavallo con un singolo corno in mezzo alla fronte. Il nome deriva dal latino unicornis, a sua volta dal prefisso uni- e dal sostantivo cornu, "un solo corno". È spesso associato o confuso con il monocero. Presenta barba di caprone, coda leonina, zampe pelose e zoccoli bovini; nel Medioevo era simbolo della castità. Nel simbolismo cristiano l'animale mitico simboleggia quindi l'Incarnazione del Verbo di Dio che prepara la strada all'avvento del Vero Re. Qualche ricercatore in passato provò a dire, senza fortuna, di aver ritrovato ossa e resti di questo mitico animale. Nella letteratura cortese aveva risonanze più propriamente erotiche: il liocorno cacciatore invincibile poteva essere ammansito solo dall'amore di una fanciulla vergine. Alcuni artisti hanno raffigurato l'unicorno come simbolo di purezza verginale come nel dipinto attribuito a Luca Longhi La dama e l'unicorno (1550 ca.) conservato presso il Museo Nazionale di Castel Sant'Angelo e Domenichino nell'affresco la Vergine con l'unicorno di Palazzo Farnese (1602 ca.). Due unicorni sono  stati raffigurati in una delle cappelle della chiesa di San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, Nella saga Harry Potter e la Pietra Filosofale è citata la presenza nella Foresta proibita di diversi unicorni, il sangue dei quali avrebbe il potere di allungare la vita di coloro che lo bevono. Citazioni di unicorni sono rinvenibili nel “L'unicorno nero” di Terry Brooks, La fine del mondo e il paese delle meraviglie di Haruki Murakami, Il cavallino bianco di Elizabeth Goudge. La   famosa cantante italo-americana Lady Gaga lo ha utilizzato come simbolo del suo secondo album Born This Way. The Born This Way Ball, più di una volta, dedicandogli ad esempio anche la traccia Highway Unicorn (Road to Love) e tatuandosi la creatura sulla coscia, a simboleggiare il suo appoggio alla comunità lgbt+ di cui l'unicorno è un meme capillarmente diffuso. E’ raffigurato negli stemmi del Comune di Bitetto in Italia e di alcune  città tedesche, come pure in quello del 6th Cavalry Regiment, esercito degli Stati Uniti. Da questo animale mitologico  prende il nome una delle contrade di Siena, quella del Leocorno, forse come derivazione dallo stemma della famiglia Brunelli, unica famiglia di Siena avente un unicorno come stemma araldico.

L’idra, nella mitologia è rappresentato come un mostruoso serpente marino anfibio con molte teste (da tre a nove e più), che rinascevano se tagliate. La testa centrale sarebbe immortale.  Generata da Tifone ed Echidna, viveva nella palude di Lerna in Argolide; la sua uccisione costituì la seconda delle dodici fatiche di Ercole. Era un mostro velenosissimo in grado di uccidere un uomo con il solo respiro, con il suo sangue o al solo contatto con le sue orme. Viene descritto come dotato di grande intelligenza e di arguzia diabolica. Alcuni autori come Simonide e Diodoro Siculo narrano di un numero di teste pari a cinquanta ed oltre, mentre Pausania riferisce di una sola testa e ne ridimensiona la stazza paragonandola a una biscia di mare. Figura nel dipinto Eracle e l'Idra di Lerna, olio su tela di Gustave Moreau, 1876, Art Institute di Chicago. Il compito di ucciderla fu assegnato ad Eracle per la sua seconda fatica: l'eroe stanò la stanò con delle frecce infuocate per poi affrontarla, ma ogni volta che le veniva tagliata una delle teste ne ricrescevano due dal corpo. Eracle fu così aiutato da Iolao che, dopo ogni taglio di una testa ne cauterizzava il moncherino con il fuoco impedendone la ricrescita. Il mostro fu definitivamente vinto e ucciso da un masso utilizzato da Eracle per schiacciarne la testa immortale. La sua sagoma è illustrata in una versione olandese seicentesca dell'Historiae naturalis di Johannes Jonston. Nella zoologia mitologica medioevale, il termine "idra" sta ad indicare un generico drago con molte teste. In alcuni bestiari medioevali è citato anche l'hydrus, un serpente nemico per antonomasia del coccodrillo, dal quale si fa inghiottire per poi lacerarne l'intestino (analogamente a come era detto fare l'icneumone). Erasmo da Rotterdam nei suoi Adagia lo cita nella guerra all'idra di Lerna,

Arpie. Nella mitologia greca, le arpie ("le rapitrici", dal verbo greco ἁρπάζειν, harpázein, "rapire") sono creature mostruose, con viso di donna e corpo d'uccello. L'origine del loro mito deve forse ricondursi a una personificazione della tempesta. Le arpie, Celeno, Ocipete ed Aello, figlie di Taumante ed Elettra e sorelle di Iride, sono citate nell'Odissea di Omero (libro XX): in una preghiera ad Artemide Penelope ne parla come di procelle e ricorda che rapirono le figlie di Pandareo per asservirle alle Erinni. Esiodo parla di due arpie, Aello e Ocipete; di esse dice che avessero una magnifica capigliatura e che fossero potenti nel volo. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio (libro III) le arpie, per ordine di Hera, perseguitano il re e indovino cieco Fineo, portandogli via le pietanze dalla tavola. Virgilio cita le arpie nell'Eneide, facendo il nome di una terza sorella, Celeno. Dante Alighieri cita le arpie nel Canto XIII dell'Inferno: esse rompono i rami e mangiano le foglie degli alberi al cui interno si trovano le anime dei suicidi, che, in questo modo, provano dolore. Nell'Orlando furioso (canto XXXIII) Ludovico Ariosto riprende la storia di Fineo, e le Arpie insozzano la tavola del cieco re di Etiopia. Una famosa opera di Andrea del Sarto è la Madonna delle Arpie, conservata agli Uffizi, risalente al 1517. Giovanni della Robbia e Santi Buglioni realizzarono due arpie sugli spigoli del fregio dell'Ospedale del Ceppo di Pistoia nel 1525. Elzie Crisler Segar disegnò le arpie come nemiche di Braccio di Ferro in una serie di strisce quotidiane del 1938. Anche il cartoonist Carl Barks disegnò le arpie come antagoniste di Paperino e zio Paperone nella storia a fumetti del 1956 dal titolo Paperino e il Vello d'oro.

Ircocervi. Il termine  ircocervo deriva dal latino hircocervus, parola composta da hircus ("capro") e cervus ("cervo"), e designa appunto un animale mitologico per metà caprone e per metà cervo. Viene anche denominato tragelafo e descritto da Diodoro Siculo come «avente corna di cervo, e il mento irto per la lunga barba, spalle pelose, impeto velocissimo nel primo correre, e facilità a stancarsi subito». Col tempo l'uso letterale del termine è stato abbandonato in favore di quello metaforico per riferirsi a cose assurde ed irreali. L'ircocervo viene citato da Aristotele nel De Interpretatione per rafforzare la tesi, già espressa da Platone nel Sofista, che un nome di per sé non ha valore di verità o falsità. Lo stesso Aristotele utilizza l'immagine per sostenere che è possibile sapere cosa si intende con l'espressione ircocervo ma non risalire all'essenza dell'ircocervo, ossia sapere cosa realmente sia. L'esempio aristotelico dell'ircocervo viene magnificato da Boezio il quale sottolinea come la scelta di una parola provvista di significato, benché riferita a una cosa inesistente, permette di ragionare sull'inesistenza delle categorie di vero e falso quando applicate alla parola nella sua assolutezza e non al suo essere priva di senso. Per contro Guglielmo di Ockham nell'Expositio in librum Perihermenias Aristotelis utilizza l'immagine dell'ircocervo per simboleggiare la necessità di rivolgere le proprie attenzioni al concreto e non all'astratto, cercando di spiegare la realtà con semplicità e immediatezza. Nel XX secolo l'immagine venne ripresa da Benedetto Croce in riferimento al liberalsocialismo quando, nel 1942 attaccò, accusandolo di irrealismo, il socialista Guido Calogero che nel suo Manifesto del Liberalsocialismo aveva tentato di unire due concetti che Croce considerava inconciliabili, quali quello di libertà (liberalismo) e quello di eguaglianza (socialismo).

Il drago. Il drago è una creatura mitico-leggendaria dai tratti solitamente serpentini o comunque affini ai rettili, ed è presente nell'immaginario collettivo di tutte le culture, in quelle occidentali come essere malefico portatore di morte e distruzione, in quella orientale come creatura portatrice di fortuna e bontà.  Il termine, di uso generico per indicare una figura mostruosa, deriva dal latino draco (nominativo), draconis (genitivo), a sua volta proveniente dal greco δράκων (drakon), con l'omologo significato di serpente. L'etimologia del termine è stata spesso discussa: connesso col verbo δέρκεσθαι (dèrkesthai) "guardare", "che guarda lontano", probabilmente in relazione ai poteri legati allo sguardo di queste bestie o alla loro presunta vista acutissima. Fra gli animali realmente esistenti, a volte vengono chiamati "draghi" alcuni sauri, come il varano di Komodo (o drago di Komodo, Varanus komodoensis), il drago barbuto (Pogona vitticeps), il drago d'acqua (Physignathus cocincinus), il drago volante  e il drago marino comune. Presso gli antichi Greci e, a seguire, presso i Romani, acquisirono questo nome tutte le specie di serpenti grossi ed innocui che potevano anche essere tenuti come animali domestici. Già con Omero si cita un "drago", un animale fantastico con una vista acuta, l'agilità di un'aquila e la forza di un leone, rappresentato come un serpente con zampe e ali.  Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio è proprio un "drago" a sorvegliare il Vello d'oro, mentre Filostrato, nel 217 d.C., dissertava al riguardo di queste bestie. Ampie trattazioni sul drago sono presenti anche in opere di scrittori Romani come Plinio, nella sua Historia Naturalis, Gaio Giulio Solino e Pomponio Mela. Nel Nuovo Testamento, nell'Apocalisse di San Giovanni Apostolo, una delle visioni del teologo Giovanni riguarda un enorme drago rosso con sette teste e dieci corna, simboleggia il diavolo, che ripetutamente insidia la Donna vestita di Sole.  Nella favola di Fedro La volpe e il drago, il mitologico animale appare per la prima volta come guardiano di tesori nascosti, a simboleggiare il vizio dell'avarizia. In Cina, i draghi sono da tempo immemorabile, assieme alla fenice, simbolo della famiglia imperiale.

Chimera (in greco antico: Χίμαιρα) è un mostro leggendario formato con parti del corpo di animali diversi. Le descrizioni del mostro variano a seconda degli autori dell'epoca e spesso il morso del serpente era velenoso e posto sulla coda. Esiodo scrive che avesse testa e corpo di leone ma con una testa di capra sulla schiena ed una coda di serpente mentre Omero scrive che avesse il corpo di capra, coda di drago, testa di leone e che sputava fuoco dalle fauci. Secondo il mito greco fa parte della progenie di Tifone ed Echidna, insieme all'Idra di Lerna, Cerbero e Ortro. Secondo Esiodo fu Chimera a partorire la Sfinge ed il Leone di Nemea avuti dal fratello Ortro e progenie che secondo altri autori apparterrebbe a sua madre Echidna oppure ad altre madri. Vari autori (Plinio il Vecchio, Servio Mario Onorato, Virgilio, Omero) parlano del luogo dove la chimera si trovava. Strabone riuscì a descrivere anche una montagna situata sulla costa della Licia e altri alti promontori che si trovano vicino a una città. In quel luogo esiste il Monte Chimera, situato nelle vicinanze di Adalia, che in passato era citato dagli stessi autori per i suoi fuochi perenni. Nella civiltà etrusca, la Chimera appare nelle pitture murali del IV secolo a.C. Nell’antico Egitto era una leonessa sputa fuoco,  una delle più antiche divinità solari e di guerra,  rappresentata già 3000 anni prima del periodo greco. Chimera fu uccisa da Bellerofonte su ordine del re di Licia Iobate stanco delle scorrerie della bestia sul suo territorio. Bellerofonte aveva la punta della sua lancia fatta di piombo e quando la scagliò fra le fauci aperte del mostro il calore delle fiamme che le uscivano dalla bocca sciolse quel metallo soffocandola. Secondo altre fonti postume all'Iliade, Chimera non è locata nella Licia, ma nell'Aspromonte. La Chimera di Arezzo è un bronzo etrusco, probabilmente opera di un gruppo  di artigiani attivo nella zona aretina , che combinava modello e forma stilistica di ascendenza greca o italiota all'abilità tecnica fornita da maestranze etrusche. È conservata presso il Museo archeologico nazionale di Firenze, ha altezza di 78,5 cm e lunghezza di 129 cm. È il simbolo del Quartiere di Porta del Foro, uno dei quattro quartieri della Giostra del Saracino di Arezzo. La scultura rappresenta un leone in posizione aggressiva a bocca aperta e con artigli estroflessi, con una testa di capra che nasce dalla schiena e un serpente al posto della coda che aggredisce mordendo uno dei corni della capra.

Grifi. l grifone è una creatura leggendaria con il corpo di leone e la testa d'aquila. La maggiore frequenza di rappresentazione di questa creatura ibrida si riscontra nell'arte minoico/micenea e greca. Si trovano tuttavia alcune figure archetipe, o comunque correlabili ad essa, in diverse civiltà del Mediterraneo. In Egitto, la più antica raffigurazione che può ricordare un grifone si può osservare sulla "tavolozza dei due cani", del periodo predinastico (5.500 - 3.100 a.C.), rinvenuta a Ieracompoli. Un altro possibile archetipo del grifone si potrebbe invece individuare nel terribile Anzû, personificazione del vento di tempesta e della pioggia, rappresentato o citato fin dal III millennio a.C. nei rilievi sumeri ritrovati presso Telloh, sebbene fosse rappresentato non con la testa di aquila, ma di leone. Un'altra creatura con una descrizione simile è Asakku, anch'esso spirito della tempesta, demone portatore delle malattie e delle infermità. Presso le mitologie mesopotamiche le creature costituite dall'unione di più animali rapaci, o con serpenti dragonici, erano solitamente forme daimoniche delle divinità regali e guerriere della fertilità, della pioggia e della tempesta, con cui si accompagnano in aspetto benevolo come esseri portatori di fertilità. Nel loro aspetto feroce, invece, possono essere o causare eventi nefasti come disastri naturali, siccità e diluvi. Un affresco  con Grifone è presente nella sala del trono a Cnosso. Presso i Greci era legato al culto solare, rivestendo un ruolo di compagno-servo di Febo o Apollo.  Celebri sono i due grifoni di Ascoli Satriano in marmo policromo, presumibilmente opera di un maestro della Daunia o magno greco apulo; questi sono raffigurati con grandi ali colorate e non da rapace, becco d'aquila, collo di serpente o comunque rettiliano, corpo di leone. Molte illustrazioni rappresentano il grifone con le zampe anteriori da aquila, dotate di artigli, mentre le posteriori sono zampe da leone oppure tutte quattro zampe da leone. La sua testa da aquila ha orecchie molto allungate; queste sono a volte descritte come orecchie da leone ma anche da cavallo, a volte anche piumate. Stando ad alcuni autori, la coda sarebbe costituita da un serpente, paragonabile a quella della chimera. Raramente è dipinto senza ali: nel Quattrocento, e anche più tardi, in araldica questa creatura veniva considerata un grifone maschio, a differenza delle femmine dotate di ali. Il grifone come figura araldica chimerica simboleggia custodia e vigilanza. Inoltre poiché riunisce l'animale dominante sulla terra, il leone, con quello dominante in cielo, l'aquila, il grifone simboleggia anche la perfezione e la potenza. Se rappresentato con zampe anteriori leonine, è distinto come Opinicus. Il Grifone è anche il simbolo delle Città di Agnone, Arzignano, Genova, Grosseto e Perugia. Il grifone è l'animale che traina il carro di Dante Alighieri nel Purgatorio - Canto ventinovesimo vv. 88-120 dove è simbolo della doppia natura umana e divina di Cristo. Il grifone è descritto da Lucio Flavio Filostrato in Vita di Apollonio di Tiana del III secolo d.C., da Marco Polo nel capitolo 186 de Il milione del XIII secolo, ne I viaggi di Mandeville del secolo successivo, da John Milton in Paradiso perduto del 1667 e infine, ha un ruolo primario in L'uccello grifone, una delle Fiabe del focolare raccolte dai fratelli Grimm. Anche l'ippogrifo è una creatura leggendaria. Il suo nome deriva dal greco antico ἵππος, híppos e γρύψ, grýps. L'ippogrifo è infatti una creatura alata, originata dall'incrocio tra un cavallo ed un grifone, con testa e ali, zampe anteriori di aquila, ed il resto del corpo da cavallo.

La sfinge. (in greco antico: σφίγξ) è una figura mitologica raffigurata come un mostro con il corpo di leone e testa umana (androsfinge), di falco (ieracosfinge) o di capra (criosfinge), talvolta dotato di ali. Solitamente il ruolo delle sfingi è associato a strutture architettoniche come le tombe surreali o i templi religiosi; la più antica raffigurazione di sfinge conosciuta (una scultura) sarebbe stata trovata vicino a Göbekli Tepe, nel sito di Nevali Çori, e datata al 9.500 a.C. ma non si hanno interpretazioni ufficiali o accademiche a conferma di tale ipotesi che rimane confinata nel campo della pseudo-archeologia. La prima sfinge egizia è stata quella raffigurante la Regina Hetepheres II della quarta dinastia, che regnò dal 2623 al 2563 a.C. La regina è stata uno dei membri più longevi della famiglia reale di quella dinastia. La Grande Sfinge è diventata un emblema dell'Egitto, e viene frequentemente rappresentata su francobolli, monete e documenti ufficiali. Eschilo afferma che mangiasse uomini vivi..Nel mito di Edipo la sfinge custodiva l'ingresso alla città greca di Tebe. Per consentire il passaggio ai visitatori poneva loro un indovinello cui si doveva rispondere correttamente. L’indovinello consisteva nella domanda “chi, pur avendo una sola voce, si trasforma in quadrupede, tripede e bipede?" Il mostro strangolava o divorava chiunque non fosse in grado di rispondere. Nel mito Edipo risolse l'enigma rispondendo "l'Uomo, che nell'infanzia cammina a quattro zampe, poi su due piedi in età adulta, e infine utilizza un bastone per sorreggersi in età avanzata".Nella rivisitazione della leggenda di Edipo di Jean Cocteau La machine infernale ("La macchina infernale"), la Sfinge riferisce a Edipo la risposta all'enigma, in modo da uccidersi e da non dover quindi più uccidere, e anche da far sì che egli la amasse. Egli però la lascia senza mai ringraziarla per avergli dato la risposta all'enigma. La scena termina con la Sfinge e Anubi che ascendono al cielo. Ci sono interpretazioni mitiche, antropologiche, psicoanalitiche e parodistiche dell'enigma della Sfinge e della risposta di Edipo. Numerosi libri e riviste di enigmistica utilizzano la Sfinge nel titolo o nelle illustrazioni. Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli è custodito un cratere apulo che si ritiene illustri un altro mito (a noi non pervenuto) avente la Sfinge come protagonista: un sileno che porge al mostro un uccello chiuso nel palmo della sua mano.  Le sfingi sono state fatte rivivere quando le decorazioni grottesche della Domus Aurea di Nerone sono state portate alla luce nel tardo XV secolo a Roma. La bottega di Raffaello incluse delle sfingi nella decorazione della loggia di Palazzo Vaticano (1515-1520), e anche tali sfingi aggiornarono il vocabolario delle grottesche romane. Statue di sfingi abbelliscono ville, città e musei di mezzo mondo. Di particolare bellezza quella ammirabile nel museo di Delfi.

La fenice (dal greco antico Φοῖνιξ?, phoînix latinizzato in phoenix, phoenicis, ossia "rosso porpora"), la stessa radice di Fenici, passati alla storia per la potenza commerciale acquisita grazie al commercio del rosso porpora ottenuto dai murici. Spesso la fenice è indicata come  "araba fenice" e "uccello di fuoco", in quanto uccello mitologico, in grado, secondo la tradizione di vari popoli, di controllare il fuoco e di rinascere dalle proprie ceneri dopo la morte. Gli egizi furono i primi a parlare del Bennu, creatura che poi nelle leggende greche divenne la fenice, raffigurandola solitamente con la corona Atef o con l'emblema del disco solare. Contrariamente alle fenici di tutte le altre civiltà, quella egizia non era percepita come un rapace o un variopinto uccello tropicale ma come un passero o un airone cenerino e non risorgeva dalle fiamme, cui era immune, come nel mito greco, ma dalle acque.La fenice in vari miti era un favoloso uccello sacro, infatti simile a un'aquila reale, e aveva il piumaggio dal colore splendido, il collo color d'oro, rosse le piume del corpo e azzurra la coda con penne rosee, le ali in parte d'oro e in parte di porpora, un lungo becco affusolato, lunghe zampe, due lunghe piume, una rosa ed una azzurra, che le scivolano morbidamente giù dal capo e tre lunghe piume che pendono dalla coda piumata, una rosea, una azzurra e una color rosso-fuoco. Il motto della fenice è Post fata resurgo ("dopo la morte torno ad alzarmi"). Pochissimi storici si domandano se sia esistita realmente la fenice. Gli antichi la identificavano col fagiano dorato, tanto che un imperatore romano si vantò di averne catturata una , con l'ibis o col pavone. Come l'airone che spiccava il volo sembrava mimare il sorgere del sole dall'acqua, la Fenice venne associata col sole e rappresentava il ba ("l'anima") del dio del sole Ra, di cui era l'emblema — tanto che nel tardo periodo il geroglifico del Bennu veniva impiegato per rappresentare direttamente Ra. Secondo la  versione  più diffusa del mito, l'araba fenice è divenuto il simbolo della morte e risurrezione; si dice infatti "come l'araba fenice che risorge dalle proprie ceneri". Dopo aver vissuto per 500 anni, la Fenice sentiva sopraggiungere la sua morte, si ritirava in un luogo appartato e costruiva un nido sulla cima di una quercia o di una palma. Qui accatastava le più pregiate piante balsamiche, con le quali intrecciava un nido a forma di uovo, sul quale si adagiava, aspettando che i raggi del sole accendessero il fuoco che avrebbe incenerito la fenice. Dal cumulo di cenere sarebbe emersa  poi una piccola larva (o un uovo) che i raggi solari facevano crescere rapidamente fino a trasformarla nella nuova creatura nell'arco di tre giorni, dopodiché la nuova Fenice, giovane e potente, sarebbe volata ad Eliopoli per posarsi sopra l'albero sacro. Storicamente parlando, uno dei primi resoconti dettagliati che abbiamo è quello dello storico greco Erodoto. Ovidio, ne Le metamorfosi, ci narra della fenice, uccello che, giunto alla veneranda età di 500 anni, termine ultimo della vita concessagli, depone le sue membra in un nido di incenso e cannella costruito in cima ad una palma o a una quercia e spira. Dal suo corpo nasce poi un'altra fenice che, divenuta adulta, trasporta il nido nel tempio di Iperione, il Titano padre del dio Sole. La lunga vita della Fenice e la sua così drammatica rinascita dalle proprie ceneri, ne fecero il simbolo della rinascita spirituale, nonché del compimento della Trasmutazione Alchemica — processo Misterico equivalente alla rigenerazione umana ("Fenice" era il nome dato dagli alchimisti alla pietra filosofale). Anche Dante Alighieri la descrive nell’Inferno, XXIV, 107-111. In astronomia la Fenice (abbreviazione: Phe) è anche una costellazione dell'Emisfero Sud, vicino a Tucana (il Tucano) e Sculptor ed è costituita da 11 stelle. La simbologia associa alla Fenice il numero romano di LXXI, ovvero 71, dove il numero 7 indica le ceneri (come 7º giorno fine) e il numero 1 indica la vita, l'inizio. Come la fenice che dalla fine ha un nuovo inizio.

Medusa. In greco vuol dire "protettrice", "guardiana", da μέδω, médō, "proteggere"; è una figura della mitologia greca ed insieme con Steno ed Euriale, è una delle tre Gorgoni, figlie delle divinità marine Forco e Ceto. Secondo il mito le Gorgoni avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il loro sguardo e, delle tre, Medusa era l'unica a non essere immortale; nella maggioranza delle narrazioni viene decapitata da Perseo. Nelle rappresentazioni più antiche, Medusa e le sue sorelle erano raffigurate come orrende donne con ali d'oro e mani di bronzo, dall'ampio viso rotondo incorniciato da una massa di serpenti per capelli, bocca larga con zanne suine e, a volte, anche una corta barba ruvida. Più avanti, nell'arte, presero le sembianze di fanciulle bellissime, sempre con serpi al posto dei capelli. Secondo Esiodo (Teogonia), Eschilo (Prometeo incatenato), Pausania e Nonno (Dionysiaca), il padre delle Gorgoni era il dio marino Forco; Esiodo e Apollodoro dànno loro per madre la sorella di quest'ultimo, Ceto. Secondo Esiodo, esse vivevano nell'Oceano Occidentale, vicino a dove abitavano anche le Esperidi e la Notte. Secondo altri autori (Ovidio, Apollodoro, Esiodo), Medusa era invece in origine una donna bellissima: a mutarla in mostro sarebbe stata la dea Atena, come punizione per aver giaciuto con (o per essere stata violentata da) Poseidone in uno dei templi a lei dedicati. La leggenda vuole che il re di Serifo, Polidette, inviasse Perseo a uccidere Medusa, pensando in tal modo di liberarsi di lui per poterne sposare la madre, Danae. Perseo rintracciò le Graie, togliendo loro il solo dente e l'unico occhio finché esse non gli indicarono la dimora delle ninfe dello Stige: queste ultime diedero all'eroe dei sandali alati e uno zaino , oltre all'elmo dell'invisibilità di Ade; da Ermes ricevette inoltre un falcetto adamantino; secondo alcuni racconti, prima di partire per la missione venne inoltre condotto da Atena a Samo, dove la dea gli avrebbe mostrato tre simulacri delle Gorgoni perché imparasse a riconoscere Medusa dalle sue due sorelle. Raggiunto quindi il luogo dove dimoravano le Gorgoni, le trovò che dormivano: con la mano guidata da Atena e guardandone il riflesso nello scudo per evitare di restare pietrificato, Perseo riuscì a decapitare Medusa: dalla ferita uscirono subito il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore, i figli che la Gorgone aspettava da Poseidone. Svegliatesi, le due sorelle di Medusa tentarono di inseguire Perseo il quale però riuscì, invisibile, a fuggire in groppa a Pegaso portando con sé la testa della Gorgone in un sacco. Dal sangue di Medusa, secondo alcune versioni, nacquero inoltre l'anfesibena e il corallo (o "gorgonia", in greco gorgonion), quest'ultimo da alcune alghe pietrificate al contatto con la testa della gorgone. Perseo portò con sé la testa di Medusa, la quale non aveva perso il suo potere di pietrificare con lo sguardo, e la usò come arma contro numerosi altri avversari e nemici. Ad esempio, prima di tornare a Serifo Perseo rimase o passò in Africa (o nell'Esperia), dove incontrò Atlante che tentò di ucciderlo, visto che era figlio di Zeus (una profezia gli aveva infatti predetto che sarebbe caduto per mano di un figlio di Zeus); Perseo quindi lo mutò in pietra con la testa della gorgone, dando origine all'odierna catena montuosa dell'Atlante .Usò poi la testa per pietrificare altri nemici e la donò infine  ad Atena, che la pose al centro della sua egida.La figura di Medusa è un soggetto che ha lasciato una traccia ben visibile nel corso dei secoli; essa, o più spesso la sua sola testa, il gorgoneion. Le più antiche rappresentazioni plastiche del mito che ci sono pervenute sono una rappresentazione di Perseo che uccide Medusa sotto gli occhi di Atena, su una metopa da Selinunte (540 a.C., oggi al Museo Archeologico di Palermo) e una Medusa sul frontone occidentale del tempio di Artemide a Corfù (580 a.C., oggi al Museo Archeologico di Corfù). Fra i molti dipinti in cui è rappresentata, particolarmente noti sono Scudo con testa di Medusa di Caravaggio (1590 circa) e La Medusa di Pieter Paul Rubens (1618 circa); piuttosto note sono le sculture Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini (1545-1554) e Busto di Medusa di Gian Lorenzo Bernini (1630).

La sirena . Anch’essa è una creatura favolosa della mitologia classica, raffigurata con la parte superiore del corpo di donna, e quella inferiore di uccello, o, a partire dal Medioevo, di pesce. Il canto melodioso delle sirene ammaliava i naviganti e provocava naufragi. Una parte dell’etimologia riconduce il nome al greco . syro (= io attraggo) o seiráo (= io incateno). L'origine letteraria, nell'antichità classica, della figura delle sirene è nell'Odissea di Omero dove vengono presentate come cantatrici marine abitanti un'isola presso Scilla e Cariddi, le quali incantavano, facendo poi morire, i marinai che incautamente vi sbarcavano. Le Sirene tentano Odisseo con l'invito "a sapere più cose.I pittori vascolari rappresentavano le sirene anche come esseri maschili con la barba e sia se fossero di forme maschili o femminili, si può individuare la loro natura per il corpo che richiama sempre quello di un uccello (con le parti inferiori a volte a forma di uovo) con una testa umana, a volte con braccia e mammelle, quasi sempre con artigli ai piedi, artigli non aventi però la funzione del rapimento. Il loro corpo per metà donna e metà uccello sarebbe frutto di un incantesimo vendicativo da parte di Afrodite disprezzata dalle vergini sirene per i suoi amori. Un'altra tradizione le vuole punite da Demetra per non aver impedito il ratto della figlia Persefone da parte di Ade mentre insieme coglievano dei fiori. Le vergini sirene chiesero agli dei, secondo Ovidio, di essere trasformate in uccelli per poter meglio cercare la perduta amica Persefone.

Le sirene sono anche onniscienti e in grado di placare i venti, forse con il loro canto, intonando le melodie dell'Ade[24]. Nel corso della storia si sono verificati diversi presunti avvistamenti di sirene, incluso quello di Cristoforo Colombo  nel 1493.  Benché  le sirene siano spesso dipinte come attraenti e affascinanti donne (almeno nella loro parte fisicamente umana) e benché presentandosi sempre nude accrescano ulteriormente il potere seducente della loro bellezza, accettando l'anatomia tramandata in tutti i miti delle sirene, esse sono prive di organo riproduttivo femminile e quindi inadatte a soddisfare il desiderio che creano in chi le vede. La pittura, la scultura, la letteratura, il cinema ed ogni tipo di arte e di spettacolo  si sono occupati delle sirene, quasi sempre con successo,anche in una forma particolarmente adatta  ai bambini.

 

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