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OLTRE IL MARE. Di Assunta D'Aquale

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Nella semioscurità della stiva l’aria era satura di tanfo nauseabondo, un miasma di vomito e residui organici le serravano la gola. Noijan seduta in un piccolo spazio cercava invano di trattenere il respiro mentre al suo fianco Salim giaceva addormentato, con la piccola testa appoggiata sulle sue gambe.

Lei gli carezzava dolcemente i riccioli neri mentre la sua mente ritornò a quella che qualche giorno prima era stata la sua casa.

 

La strada polverosa dove si allineavano costruzioni basse e fatiscenti in fondo alla quale rivide sua madre immobile, vestita di nero con una mano alzata in segno di saluto.

Fu questa l’ultima immagine impressa nel suo sguardo, l’ultimo ricordo prima del viaggio, prima del calvario, prima di quella paurosa odissea.

Poi soltanto acqua intorno a lei, una distesa immensa, infinita. Noijan non aveva mai veduto il mare e la notte in cui partirono riuscì a scorgere una liquida distesa color pece, ostile e paurosa.

La giovane donna aveva perso cognizione del tempo, ore e ore erano trascorse, con le braccia e le gambe intorpidite, costretta in quella posizione dall’angusto spazio in cui erano stipate almeno un centinaio di persone.

Corpi ammassati, il caldo insopportabile, l’aria satura di sudore e lacrime. Gli stessi abiti da almeno quindici giorni, sporchi e laceri erano divenuti oramai come una seconda pelle. Quindici lunghi giorni senza alcun ristoro, senza un minimo di cura personale, Noijan si sentiva peggio di una bestia selvaggia, priva della dignità a cui ha diritto ogni essere umano.

La speranza, piccolo faro sperduto nell’oceano scuro, era l’unica flebile luce che guidava quel barcone fatiscente, traboccante di un popolo esiliante in cerca di un’esistenza migliore.

Il monotono rollio delle onde cullava quei corpi abbandonati al torpore dell’inedia. Ore senza mangiare nulla, solo un po’ d’acqua. Noijan avvertì lo stomaco vuoto contrarsi per i morsi della fame, ma si concentrò sui suoi ricordi, nient’altro che un appiglio al quale aggrapparsi per non impazzire.

Due mesi prima le era stato proposto il viaggio della speranza.

Tanti i dubbi, le paure, ma poi infine la decisione di partire. La corsa per procurarsi i soldi era stata estenuante, una somma enorme. I parenti erano accorsi in suo aiuto, lei era così giovane e suo fratello ancora un bambino, forse una vita diversa era ancora possibile.

Noijan, in lingua siriana significa “nuova vita”, forse anche quello era un segno del destino. Quel nome era stato scelto per accoglierla nel mondo, come un buon auspicio e la ragazza sentì il dovere di seguire il cammino designato dal suo stesso nome.

Salim aprì gli occhi.

«Non siamo ancora arrivati?» chiese il bambino.

«No Salim, il viaggio sarà molto lungo, cerca di riposare».

La ragazza prese con dolcezza la piccola mano del fratello, cercando di infondere una sicurezza che lei stessa stava perdendo.

«Ma io ho fame! Non c’è nulla da mangiare?» Noijan avvertì una stretta al cuore. Aveva ancora qualche biscotto riposto nella sacca, ma preferiva conservare il più a lungo l’esigua scorta.

«Salim, ti prometto che più tardi ti darò un biscotto, ora riposa…».

Il bambino rassegnato richiuse gli occhi.

La ragazza tornò ai suoi ricordi.

Erano partiti da Al Qusayr con un vecchio pullman per raggiungere il Libano distante pochi chilometri, per poi attraversare la Giordania in direzione dell’Egitto. Poi di nuovo in viaggio verso la Libia, dove finalmente furono caricati sulla nave.

Si erano lasciati alle spalle una scia di sangue e di orrore, la piccola città era già stata distrutta dai bombardamenti. Gli Hezbollah avevano proseguito il loro assedio per molto tempo fino a quando gruppi ribelli uniti alla popolazione erano riusciti a sfondare le linee.

Fu allora che Noijan e i suoi compagni di sventura decisero di lasciare definitivamente il paese per imbarcarsi verso l’Europa. Durante la fuga videro colonne umane spostarsi attraverso i sentieri di campagna, senza una meta precisa, col solo intento di allontanarsi da quell’inferno. Donne, bambini e anziani marciavano in ordinata processione abbandonando chi era stato colpito dai raid aerei, oppure chi si era arreso alla stanchezza, convinto di non potercela fare.

Anche sua madre non aveva voluto lasciare la sua casa e questo pensiero era come un macigno sul cuore, forse un giorno sarebbe tornata per ritrovarla nello stesso punto in cui l’aveva lasciata.

Durante il faticoso tragitto piccole città di cemento si alternavano a sprazzi di campagna. Dappertutto le strade erano invase da soldati o ribelli armati. I kalashnikov erano come sciabole luccicanti, sulle spalle ricurve degli uomini che camminavano veloci e a testa bassa per schivare i colpi dei cecchini.

Ovunque desolazione e macerie.

La sua terra, ridotta in polvere dall’odio, Noijan non riusciva ancora a comprendere il motivo di tutta quella violenza. Da un giorno all’altro la sua vita era stata travolta da quella lotta fratricida, il corso del suo destino bruscamente deviato. Si ritrovò esiliata nel mezzo di quella immensa distesa d’acqua, in balìa di una sorte incerta.

Trascorse ancora molto tempo, oppure forse qualche minuto, tutto intorno sembrava dilatarsi a dismisura, ogni minima percezione pareva assumere dimensioni sproporzionate.

«Acqua! Acqua!»

Un urlo improvviso spezzò il silenzio. Noijan spalancò gli occhi, tutti si risvegliarono dal profondo torpore. All’estremità della stiva un gruppo di persone si era alzato cercando di fuggire in direzione del boccaporto chiuso, ma era impossibile, ogni centimetro era ricoperto da un brulicante tappeto umano. Salim si svegliò.

«Noijan che succede?» chiese impaurito il bambino.

«Non lo so, stai giù, vieni, siediti accanto a me, aspettiamo»

«Presto, abbandoniamo la nave, stiamo imbarcando acqua!»

Il grido di allarme creò un caos infernale. Alcuni uomini erano in piedi, le donne invece rimasero sedute, abbracciando i loro piccoli, alcuni di loro piangevano disperatamente. Noijan strinse suo fratello, il terrore le invase ogni fibra del corpo.

Poi avvertì la sensazione di umido. L’acqua aveva iniziato a insinuarsi tra le gambe, le scarpe da ginnastica erano intrise di liquido gelato. Cercò di alzarsi in piedi trascinando con sé Salim.

«Presto alzati! alzati!» urlò con la poca voce che le era rimasta. Il bambino era come impietrito, un sacco vuoto, che lei cercava disperatamente di sollevare. Nonostante avesse solo sei anni, Salim era alto e robusto, ma infine riuscì a prenderlo in braccio. Cercò di raggiungere la scala per salire in coperta, ma il percorso era ostruito da quelli che per arrivare nello stesso punto travolgevano chiunque fosse sulla loro traiettoria.

La sua mente fu offuscata dal panico, non riusciva più a connettere i pensieri, strinse più forte il corpo di suo fratello. L’acqua già lambiva le ginocchia mentre indumenti e oggetti galleggiavano sulla superficie liquida.

Il boccaporto fu spalancato e un fascio di luce illuminò una parte della stiva, gli uomini cercarono di arrampicarsi sulla scala in cima alla quale qualcuno tentò di tirarli per le braccia.

Ci fu un passamano con i bambini piccoli, nel tentativo di farli uscire da quella trappola. Gli esili corpi passavano di mano in mano fino in cima alla scaletta. Qualcuno le strappò dalle braccia Salim, lei istintivamente cercò di non mollare la stretta.

«Lascialo lascialo, così affogherà!» Le grida la riportarono a una dimensione razionale, realizzò quello che avevano intenzione di fare.

Mollò la presa.

«Noijan! Non mi lasciare, non voglio, non voglio andare da solo!» Salim urlava con tutte le sue forze tentando di liberarsi dall’abbraccio, ma infine riuscirono a portarlo in coperta.

Noijan rimase immobile.

L’acqua che le circondava oramai le spalle, qualcuno tentò di spingerla verso l’uscita, nella testa le risuonava ancora la voce di suo fratello e un presentimento si fece largo scavando un pozzo nero in fondo al quale vi era solo la disperazione.

Riuscì infine ad uscire fuori, la scena che le si aprì allo sguardo fu terrificante. Gli scafisti spingevano le persone affinché salissero sui barconi trainati dalla nave madre, quelli utilizzati per raggiungere la terra ferma.

Alcuni uomini terrorizzati non riuscivano a muoversi e allora venivano gettati nel vortice d’acqua, ma molti di loro non sapevano nuotare. Donne e bambini disperati che si cercavano l’un altro.

Invano, in quella confusione, riuscì a scorgere Salim.

Fu travolta da una marea umana che la trascinò verso il parapetto da dove con una scala a pioli raggiunse un barcone ormeggiato alla fiancata della nave. Si ritrovò ammassata in mezzo a quella folla urlante, le mancò il respiro, il buio della notte entrò di colpo nei suoi occhi e nella sua mente.

 

~ ~ ~

 

La prima cosa che rivide al suo risveglio fu l’azzurro intenso del cielo. Poi lentamente percepì i suoni, le parole, il movimento frenetico intorno a lei e girando lo sguardo alla sua destra si rese conto di essere distesa su una sorta di lettiga, dall’altro lato alcune barche colorate erano attraccate al piccolo molo.

Cercò di sollevarsi, ma i muscoli intorpiditi non rispondevano ai suoi comandi. Sul suo corpo una coperta argentata emanava sprazzi di luce. Poi distinse lamenti, pianti, figure che si aggiravano tra le lettighe. Alcuni avevano una divisa e una mascherina davanti alla bocca.

Comprese di essere arrivata a destinazione.

In quel momento ebbe la consapevolezza necessaria per ricordarsi ciò che era successo. Con uno scatto incredibile si alzò con il busto e iniziò a spostare lo sguardo alla ricerca di Salim. Si puntellò sui gomiti e tentò di mettersi in piedi, ma la stanchezza e il digiuno la costrinsero a desistere, era troppo debole e spossata. Le persone comunicavano tra loro in una lingua incomprensibile.

Poi la vide, svettante sopra una costruzione bianca, una bandiera tricolore. Sì, finalmente era arrivata.

Ma dov’è Salim.

Questo ora era il suo unico pensiero. Accanto a lei giaceva una donna, sembrava addormentata. Le scosse leggermente il braccio e quella aprì gli occhi.

«Sto cercando mio fratello Salim, ma non vedo i bambini, dove sono?»

La donna aveva la pelle del volto completamente disidratata e le labbra secche, disse qualcosa, ma Noijan non riuscì a comprendere. Cercò di avvicinarsi piegando il busto.

«Li hanno portati via, in ospedale, ma non tutti. Ci sono stati dei morti… li ho visti, erano sulla spiaggia. Tanti bambini, in fila… per terra».

La donna non riuscì ad aggiungere altro, lacrime sottili si insinuarono nelle profonde rughe del suo volto, segnato dalla sofferenza e dal dolore.

L’ansia e il terrore presero dimora nel cuore di Noijan.

Con i gesti cercò di attirare l’attenzione di un uomo in divisa, poco distante. Era un ragazzo molto giovane, dalla pelle scura, i capelli ricci e neri. Si chinò su di lei sorridendo.

La ragazza provò a spiegare in inglese che voleva trovare suo fratello, che le era stato portato via sulla nave. Il militare chiamò l’interprete il quale spiegò alla ragazza che alcuni bambini erano stati condotti in ospedale, ma di loro non si conosceva l’identità. Gli altri invece, quelli che non erano sopravvissuti giacevano non lontano, in un hangar, in attesa che qualcuno desse loro un’identità.

Era oramai l’imbrunire quando Noijan trovò la forza e soprattutto il coraggio di andare.

Entrò nella grande sala, fredda e spoglia, dove allineati uno accanto all’altro, giacevano tanti sacchi scuri.

Ogni volta che ne veniva aperto uno Noijan sentiva la terra mancarle sotto i piedi, il cuore scoppiare e infine un sollievo breve nel non riconoscere il viso di Salim.

Giunse ai piedi dell’ultimo.

Avrebbe voluto fuggire via, il cuore si fermò per un istante. L’uomo in divisa tirò giù la lampo, con le mani tremanti, egli comprese le emozioni che dilaniavano l’animo di Noijan.

Il volto livido e gonfio di quel bambino che non era Salim la fece trasalire, una pena infinita ma al tempo stesso una gioia enorme nell’avere la certezza che suo fratello non era tra quei poveri innocenti.

Ma Noijan non trovò Salim neanche in ospedale.

Non lo trovò mai più.

Il mare, quella distesa infinita lo aveva rapito, l’aveva trascinato nei suoi abissi oscuri, per nasconderla al suo sguardo, per sottrarlo al suo caldo abbraccio.

Acqua crudele e gelida, oltre la quale c’era la promessa di trovare un futuro migliore.

Noijan oltre il mare non trovò vita nuova, soltanto terrore e disperazione.

La fine del suo sogno.

 

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