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Pagina 30. Rubrica a cura di Eva Bellacicco: “Una questione privata” di Beppe Fenoglio

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Pubblicato due mesi dopo la prematura scomparsa dell’autore, “Una questione privata” è l’opera che testimonia, sebbene incompiuta, il percorso stilistico ed umano di uno scrittore italiano che occupa sicuramente un posto di rilievo nella letteratura italiana.

 

            Oggi si parla di Beppe Fenoglio, classe 1922, piemontese di nascita, compagno di lettere di Vittorini e testimone della Resistenza, che lascia sospeso, al tredicesimo capitolo, un romanzo sulla guerra partigiana e sull’amore di Milton per la propria terra e  la propria ragazza, Fulvia.

            E’ Milton che conduce il gioco in cerca di una verità che non è soltanto quella di un sentimento d’amore forse tradito, ma è anche un percorso interiore che trova motivo d’essere proprio nella fredda lucidità aberrante della guerra.

            Il respiro incalzante della narrazione investe in maniera paritaria e parallela la passione amorosa e quella patriottica del giovane partigiano, sentimenti che si intrecciano e si danno il cambio in un succedersi di flash back, di rievocazioni  e sospensioni.

            I personaggi schivi, tenaci e duri si muovono in un ambiente che ne rispecchia e asseconda i sentimenti, accompagnandoli con i colori e la consistenza di una natura che a volte li salva, altre li condanna.

            E poi c’è il silenzio, come dimensione intima e onirica che riconduce  alla mente ricordi e dubbi sull’amore, così come sugli uomini.

            Diversamente da quella parte della produzione narrativa realistica del dopoguerra, il romanzo di Fenoglio ha un respiro più ampio e universale, e quando si serve di un volto, se ne serve per disegnarne mille di un’intera generazione.

 

“Dal promontorio della collina Milton guardava giù Santo Stefano.  Il grosso paese muto, sebbene già interamente sveglio, come dichiaravano i comignoli che fumavano bianco e denso. Deserto era pure il lungo rettilineo che collegava il paese alla stazione ferroviaria, e vuota, dalla parte opposta, la diritta strada  per Canelli, tutta visibile fin oltre il ponte metallico, fino allo spigolo della collina che copriva Canelli.

Sbirciò l’orologio al polso. Segnava le cinque minuti ma si era certamente rallentato nella notte. Eran  perlomeno le sei.

La terra era fradicia e nera, non faceva gran freddo e il cielo, sebbene grigio, era leggero ed ampio come da lunghi  giorni non appariva. I calzoni di Milton erano schizzati  di fango fin sulla coscia e gli scarponi erano due gnocchi di mota. Si calava su Santo Stefano aggirando i macchioni scheletriti  e puntando là dove sapeva esistere una passerella su Belbo. Quando arrivava a piombo delle sporgenze poteva intravvedere certi tratti del torrente. L’acqua era scura e pastosa, ma ancora lontana dallo straripare e la passerella era certamente in piedi. Il solo pensiero di dover passare a guado lo scuoteva come una febbre. Stava male, in particolare gli dolevano i polmoni, pareva si sfregassero l’uno col’altro con punte fattesi da cartilagini in metallo, e gli davano senso e sofferenza. Ad ogni passo gli cresceva dentro una sensazione  di totale debolezza e miserabilità. “Non posso farlo in queste condizioni, non posso nemmeno tentare.   Dovrei quasi sperare che non si presenti l’occasione”. Ma scendeva. sul sedere era rimasto con le gambe penzoloni nel vuoto. Lì lo possedette la piena coscienza di sé, di Fulvia, di Giorgio e della guerra. Allora tremò, di un tremito unico ed interminabile che andò a trovargli i talloni,  e pregò che la notte resistette al giorno un po’ meglio di quel che facesse. Quand’ecco uscire dalla casa il contadino e sfangare verso la stalla, ancora fantomatico nella luce che cresceva a fiotti grigi. Milton stava strusciandosi il mento e il fruscio quasi metallico della barba lunga e rada si diffondeva per metri all’intorno. Infatti il contadino guardò su e restò secco.

Hai passato la notte lassù? Bé meglio così. Non è successo niente ed io ho potuto dormire. Se ti avessi saputo sotto il mio tetto,  non avrei chiuso occhio. Ma ora scendi – Milton saltò in piedi uniti nell’aia, atterrando con un gran botto e un ampio spruzzo di fango. Restò piantato dov’era piombato, a testa china tastandosi il cinturone. – Avrai fae,, - disse il contadino, - ma io non ho proprio da darti da mangiare. Di una pagnotta mi potrei privare…. – No, grazie – O vuoi un bicchiere di grappa? Fossi matto.”

Eppure aveva dormito magnificamente nel fienile sotto lo spartiacque. Si era addormentato di colpo, aveva fatto appena in tempo a finir di seppellirsi sotto  il fieno, con appena un piccolo tunnel scavato davanti alla bocca. La pioggia crosciava sul tetto buono del fienile, violentissima e dolce. Un sonno di piombo, senza sogni, senza incubi, senza la minima interferenza  della difficile, terribile cosa sa fare l’indomani. L’aveva poi svegliato un canto di gallo, l’uggiolìo di un cane a valle e il silenzio della pioggia. Subito era sgusciato via da sotto il monticello di fieno. Sobbalzando  

 

 

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