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Pagina 30 – Rubrica a cura di Eva Bellacicco: “Il secolo lungo” di Philippe Daverio

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Immagina un museo in una vecchia stazione ferroviaria in disuso ristrutturata per l’occasione, in una qualsiasi città……

Immagina che sia il luogo deputato per  una colossale esposizione dove si trovino raccolte più di 600 opere.....

 

“Il secolo lungo” è quello di Giuseppe Garibaldi, delle masse in subbuglio e della Belle Epoque; quello del vapore, della fotografia e della scoperta della psiche; quello di Monet, del viaggio tahitiano di Gauguin e dei Macchiaioli; quello che si chiude con le bagnanti di Renoir e si apre alle demoiselles di Picasso.

Be’, questo è il secolo protagonista del museo immaginario che ipotizza ne “Il secolo lungo della Modernità “, edito dalla Rizzoli, Philippe Daverio, noto volto per chi segue l’arte in TV che, a passo con i tempi, ammiccando dice:  “Immagina, puoi”…

Immagina un museo in una vecchia stazione ferroviaria in disuso ristrutturata per l’occasione, in una qualsiasi città pronta a investirci le proprie energie, pubbliche e private.

Immagina che sia il luogo deputato per  una colossale esposizione dove si trovino raccolte più di 600 opere (per fortuna anche quelle meno note) che si raffrontano e si succedono una sorta di dimostrazione antropologica di quanto l’arte possa essere testimonianza e premonizione delle necessità materiali e spirituali dell’umanità.

Immagina che una folla di curiosi ed interessati si muova tra opere di grande testimonianza storica e artistica, affisse sulle pareti di ampie sale, caffè, ristoranti e giardini, in parte oggetto di letture analitiche o considerazioni estetiche, in parte testimonianze e narrazione della storia del XIX secolo trattata con un fare tra il serio e il faceto.

Così, in questo vagheggiamento, l’autore si rivolge, ingolosendola, a quella parte di pubblico che vuole capire i segreti e affilare gli strumenti per la comprensione di un’attività nata con l’uomo e legata ad ogni aspetto della vita e della cultura di questo. In tutti i secoli dei secoli, XIX compreso.

 

 

 

CLOSERIE DES LILAS

 

La grande serra è dedicata alla pittura en plein air. Quella innovazione delle pratiche artistiche proviene, secondo un detto ironico di Alberto Savinio, dal fatto che gli  artisti scoprirono che per la salute era meglio  dipingere all’aria aperta piuttosto che nell’atmosfera fumosa degli studi. Viene invece da una importante innovazione tecnologica, il tubetto. Già nel XVIII secolo si era iniziato a usare pittura preparata per il viaggio che si trasportava facilmente in piccole vesciche di maiale. La comperava già allora regolarmente Chardin dal suo mercante di colori. Aveva egli capito che la fatica di preparare i colori in casa non valeva sempre la pena.

Lo avete visto poi, se ben vi ricordate, nel Padiglione dei Binari con il piccolo dipinto di Massimo d’Azeglio. La pittura romantica richiedeva, quando affrontava il tema del paesaggio, il coraggio dell’aria aperta.Ma la rivoluzione vera e propria avviene negli anni ’50 quando gli inglesi e i francesi iniziano a produrre tubetti di stagno che per pochi soldi in più, garantiscono la durevolezza delle paste e il trasporto facile: Sono, a quanto pare , gli americani ad aver pensato per primi a brevettare anche il tappo avvitabile. D’altronde si capisce: dovevano conquistare il West, essere pionieri, in tutti  sensi, e una volta partiti non tornavano più indietro. Renoir raccontava ironicamente che l’Impressionismo nacque il giorno in cui unno di loro dimenticò a casa il tubetto del nero e fu quindi costretto a dipingere solo le trasparenze cromatiche della luce. Ovviamente non è così. La mutazione del gusto pittorico avviene già nella Parigi degli anni ’60 quando Manet va a dipingere le scene della vita mondana, della quale lui è protagonista tutt’altro che inconsapevole, ai giardini della città durante i concerti. Manet, ragazzo di buona famiglia, andrà a fare ciò che di solito i ragazzi di buona famiglia fanno: provoca: E lo fa alla grande con il Déjeuner sur l’herbe, dove non è il nudo a colpire, ma il fatto che la “nuda” sia così a suo agio fra di loro en plein air da rivolgersi vezzosa a chi guarda il quadro, come invitandolo a partecipare. Dipinto nel ’62, fu rifiutato al Salon nel ’63 e fu esposto al primo Salon des Refusés. Monet, classe 1840, è allora ancora l’opposto di Manet,, classe 1832, sia socialmente sia mondanamente. Nato a Parigi, ma trasferito con la famiglia nel cuore della provincia , quando suo padre apre la mesticheria nei sobborghi di Le Havre, scopre sin dall’adolescenza un talento naturale per la pittura di paesaggio. In risposta a Manet dipinge nel ’65 il suo Déjeuner sur l’herbe, un quadrone enorme di cui quello qui esposto (comunque oltre 4 metri quadrati) è solo  la rimanenza dopo il taglio avvenuto quando l’artista vent’anni dopo riuscì a recuperare la tela arrotolata lasciata marcire dal suo creditore, il padrone di casa: Qui tutti i ragazzi sono perbene, immersi in una luce, che non è ancora quella degli impressionisti ma assomiglia di parecchio alla macchia dei toscani. Il menu, essendo Monet piccolo-borghese, è meno concettuale e ben più attraente , col pollo arrosto freddo, un invitante paté en cruote, il salame e le bottiglie di vino rosso.A riprova che la questione è ben più divertente del previsto. La questione delle colazioni en plein air non finisce con Monet. Diventerà assai di moda se anche Cézanne, classe 1939, lo replica in piccolissimo formato ipersperimentale, una decina d’anni dopo. Cézanne, che questa sperimentazione la porta avanti per tutta la vita, si ritira nel plein air del meridione dove dedica tutta la sua passione, da ricercatore alla forma che il plein air gli suggerisce dinanzi alla montagnetta di Saint-Victoire.E’ forse la potenza della luce tagliente del sud che gli permette di evitare  le illusioni impressioniste  e lo spinge a scoprire plastiche di ciò che nel giro di quindici anni diventerà il Cubismo.

 

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