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Pagina 30- Rubrica a cura di Eva Bellacicco: LA NOSTALGIA DELLO SPAZIO – Bruce Chatwin , Antonio Gnoli

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In appena 90 pagine, intense e coinvolgenti, il giornalista e scrittore Antonio Gnoli ci fornisce gli strumenti per conoscere appena, ma apprezzare appieno. “un moderno cacciatore di storie”, un nuovo esploratore appartenente alla nostra cultura cosmopolita

che risponde al nome di Bruce Chatwin, intervistato nel 1982 in occasione dell’uscita del libro “In Patagonia”.

Non si tratta di un’ ennesima biografia sulla sua vita nomade e vagabonda, una vita che di sicuro presta il fianco facilmente alla leggenda e a fantasticherie dal gusto romantico per l’avventura (che anche la morte prematura tende ad alimentare), quanto una sosta di riflessione su cosa significhi scrivere di un luogo e di un’esperienza.

Lo spazio di cui qui si parla è certamente quello che l’irrequieto scrittore percorre nei suoi viaggi attraversando confini e incontrando culture, ma è soprattutto un’esperienza del tutto interiore, il mezzo per arrivare ad una dimensione umana più autentica in cui  differenze di lingue o culture non ricalcano  la mappa dei confini naturali o creati dall’uomo.

La prosa frammentaria, lirica, a volte con coloriture oniriche rendono restrittiva per lo scrittore la definizione di viaggiatore, ed imbarazzante quella di antropologo.

Sarebbe preferibile definirlo piuttosto  un “travel write “ in cui il viaggio e lo scriverne sono legati da una forza e una necessità che sono poi la vita stessa dell’autore, cosa che una volta gli fece dire: “Perdere il passaporto era l’ultima delle preoccupazioni, perdere un taccuino era una catastrofe”.

 

Bruce amò  Chatwin amò soprattutto tre cose nella vita: viaggiare, scrivere, stupire. Sebbene quest’ultimo non fosse l’aspetto immediatamente percepibile – a nasconderlo contribuiva la sua naturale capacità di mettere a proprio agio chiunque incontrasse-, Chatwin ebbe anche il dono di meravigliare. Quasi che in lui si esercitasse con assoluta spontaneità l’arte della leggerezza e dell’essenzialità. Una disposizione , occorre aggiungere, che egli pose al servizio di una curiosità senza limiti. Ai suoi occhi, l’universo non era solo un composto di particelle e di atomi, ma anche un insieme di storie da raccontare; non era solo materia, ama anche uno spazio da conquistare

Con le armi dello sguardo e della parola.

Conobbi Chatwin nel 1982. Da poco era uscito “In Patagonia”. Lo scrittore, allora pressoché sconosciuto da noi, era di passaggio a Roma. Quel libro mi aveva procurato un senso di spaesamento e insieme trasmesso l’impressione di una felice bizzarria. Era come se la narrativa si fosse data appuntamento con i generi più diversi: con le storie (anche minime), con i viaggi, con la saggistica. E avendoli convocati, li mescolasse con eccentrica maestria. Insomma, ero davanti a un libro che si stentava a definire romanzo e che per sua natura si mostrava difficilmente classificabile.

Avrei appreso in seguito che Chatwin si era lasciato sedurre dalla Patagonia perché nella sua fantasia di ragazzo quindicenne quel luogo, per prima cosa, rappresentava  tutto quanto sembrava improponibile, o meglio impensabile dalla mente di un inglese. E il risultato era lì a confermarcelo: il libro si staccava perentoriamente da quel  sentimento medio con cui l’Inghilterra ha sempre vissuto la propria ritualità.

Ci incontrammo  nei pressi di piazza del Popolo, una tarda mattina di primavera inoltrata. Sopra una camicia immacolata e una cravatta scura, punteggiata di stelle bianche. Si trattava di una “mise” che contrastava nettamente  con le tante foto che in seguito lo avrebbero immortalato nei panni del viaggiatore. E se anche il linguaggio degli abiti ha il suo peso nelle vicende umane, allora quella immagine di lui cos  elegante era il primo indizio di quanto poco egli fosse prevedibile. Dava l’ impressione di essere un a cosa  e, al tempo stesso, il suo esatto contrario. E se mai qualcuno ha saputo approfittare della difficile arte degli opposti, questo fu Bruce Chatwin.Per la stessa ragione considerarlo oggi, a poco più di dieci anni dalla scomparsa, come un cantore o un complice della fuga dai palcoscenici dell’occidente, sarebbe sbagliato o, a essere indulgenti, vero solo in piccola parte. Molti  lati del suo carattere, o meglio ancora del suo stile, riflettevano la complessità del personaggio. Ma, al tempo stesso,  la semplicità e la naturalezza dei suoi modi davano a quella complessità un timbro unico e inconfondibile. Che tutto ciò abbia contribuito alla sua affermazione, che fu tra l’altro sorprendentemente rapida, è indubitabile. Che in seguito quel successo sia stato avvolto da un’aura di leggenda,  è segno che le società non hanno mai smesso di ricorrere ai miti con cui riconoscersi e sognare”

 

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